La potenza dello stare insieme. La Roma transfemminista del 26 Novembre.

Sono passate da poco le cinque, è buio. Assieme ad altre compagne abbiamo deciso settimane fa di andare a Roma grazie anche a NonUnaDiMeno di Trieste che ha organizzato un pullman. Prima che il freddo dell’attesa ci geli completamente arriva il nostro vascello a quattroruote. Anche se ancora “mezze in coma”, inizia l’arrembaggio scintillante alla capitale. Quando ritorniamo ad essere capaci di intendere e volere viene nuovamente condivisa “la chiamata alla manifestazione” in cui con “amore e rabbia” si vuole dichiarare guerra alla guerra.

Guerra che si svolge al chiuso delle case e nelle relazioni. Guerra combattuta sul campo, dall’invasione russa in Ucraina, all’Afganistan, Kurdistan, Palestina, Yemen, ecc. sono comunque forme di dominio per affermare la logica patriarcale del più forte. Una guerra le cui armi e strategie militari consolidate a tutti gli effetti sono stupri, discriminazioni, oppressioni, abusi giocati tutti sui corpi delle donne, delle soggettività non conformi, dex dissidentx, dex migranti. Guerra che ridisegna l’economia e il welfare in funzione del riarmo e della mobilitazione bellica e che cancella le priorità imposte dalla crisi economica, sociale e climatica. Guerra dichiarata ai nostri corpi che si autodeterminano. L’affermazione elettorale della destra antiabortista, razzista e ultraconservatrice porta al governo chi in questi anni nelle amministrazioni regionali e in Parlamento ha negato più di altri l’accesso all’aborto chirurgico e farmacologico; guerra che nega la violenza omolesbobitransfobica e che si oppone all’educazione alle differenze e sessuale nelle scuole agitando lo spettro di una inesistente “ideologia gender”. A questa linea programmatica dà seguito l’istituzione del Ministero per la famiglia, la natalità e le pari opportunità affidato a Eugenia Roccella. L’attacco all’aborto legittima la violenza patriarcale riaffermando come principio la subalternità delle donne e delle persone con utero, e con esse delle soggettività non binarie e fuori norma.

Oggi si va a Roma per fermare la guerra sui nostri corpi, contro la militarizzazione delle nostre vite, siamo conscix che si prospettano tempi oscuri ma oggi stiamo per inondare Roma con una marea transfemminista per rivendicare la nostra autodeterminazione. Ma, si sa, ognunx ha il suo modo di lottare e di portare un messaggio, anzi, meglio “un grido altissimo e feroce, per tutte quelle donne che più non hanno voce”. Il nostro passa anche attraverso la gioia; siamo degli astri nascenti e brilleremo e quindi ecco che in pulmann saltano fuori brillantini, rossetti, ombretti e tutto quello che abbia almeno un qualcosa di sbriluccicante. Si ripassano insieme slogan e canti, si discute, si  chiacchiera, si ride, ma ecco che arriva il primo sussulto di una lunga serie del nostro pullman, abbiamo preso la prima buca della capitale. Fermata per la discesa stabilita … davanti alla metro di Rebibbia, beh almeno se mi mettono dentro sono vicino al punto di incontro per il ritorno, penso. Equipaggiatx da cartelli, e tanta voglia di stare insieme iniziamo fin da subito a cantare e urlare slogan, in metro, in stazione Termini, in strada: perché non può esistere solo il momento del corteo, contro il silenzio bisogna far rumore, sparigliare le consuetudini ed affermare a gran voce ovunque il nostro diritto di essere liberx e vivx. Tra facce divertite o scandalizzate arriviamo in piazza della Repubblica, abbiamo tutto il tempo di goderci il montare della marea, l’arrivo di tanti nodi di Numd, altri gruppi transfemministi,  frocx e transx dietro ad un loro striscione, nonché molte altre soggetività con i loro striscioni cartelli, tamburi e colori, e alcuni gruppi politici che non si sono smentiti portando le loro bandiere, almeno sono stati relegati in fondo ma tant’è. Non posso negare che la partenza stava diventando quasi una chimera, anche se oltre alla nostra voglia di fare casino ci facevano rimanere cariche le performance di Our voice, seguite da quelle dex sorellx iraniane, corredate da un intervento che ha parlato della rivoluzione in atto, ma ha anche accusato lo stato italiano di trattare e fare affari con un governo che uccide, precisando che non c’è nessun modo di aiuto che non passi attraverso il combattere ed opporsi al governo criminale iraniano. Le parole determinate dell’oratrice hanno ricordato quanto è stata fondamentale per loro la lezione delle donne combattenti curde; assieme a lei abbiamo ripreso il loro grido, il loro manifesto politico: Jin Jiyan Azadì – donna vita libertà. Il corteo parte e con esso il vortice di emozioni che come una marea mi assale, tra gli slogan urlati e le risate il mio sguardo cade su tre ragazz* cinesi con dei cartelli in cinese, italiano e inglese; unx dx tre indossa un pezzo di stoffa modellato a poncho con disegnate delle catene e delle scritte in cinese. Non sono l’unica ad incuriosirmi e assieme ad un’altra compagna chiediamo informazioni. In un modo un po’ caotico ci parlano di Xiao Huamei, la donna della foto incollata a uno dei cartelloni; sono qui per non far dimenticare il video, poi censurato dal governo cinese, di una donna incatenata dal marito, considerata alla stregua di una bestia da monta e che aveva generato già otto figlx. La donna è diventata simbolo della lotta contro la tratta delle mogli, un mercato che è diventato reato solo dal 2015, ma non per questo meno fiorente. Dopo le varie politiche di limitazione delle nascite e di “favoreggiamento della prole maschile”, chiudendo occhi, naso, bocca davanti alle continue uccisioni di neonate. Ora in Cina gli uomini sono circa 30milioni in più delle donne. Questo ha creato un mercato di “donne in vendita”, ragazze povere o donne con disabilità fisiche e mentali. In più alcun* denunciano che il distretto di Fengxian, nella provincia di Jiangsu, è tristemente noto anche per essere una specie di fabbrica di bambin*. Un saluto e si riprende a urlare e cantare ancora più cariche e arrabbiate. E di nuovo due cartell, uno a fianco all’altro, una a fianco all’altra due donne portano ancora denunce: #leftafghangirllearn #freedomforall/stop violence aginst women in afghanistan, l’altro, 20000 donne kosovare stuprate durante la guerra aspettano giustizia #rallyforherjustice/Adelina la tua lotta non si ferma. Mi dicono che Adelina si è suicidata un anno fa, vittima della tratta e che per saperne di più bastava cercare in internet le semplici parole : “adelina suicidio tratta”. Tre parole per capire che si tratta di Adelina Sejdini, sequestrata dalla mafia albanese e costretta con brutale violenza a prostituirsi in Italia. Era una di quelle vittime “invisibili” che non ci stavano a rimanere tali. È arrivata nel nostro Paese venticinque anni fa. Aveva ventuno anni. Ha attraversato l’Adriatico su un gommone. Per molte settimane ha subito ripetute violenze sessuali prima di essere iniziata alla prostituzione forzata dalla mafia albanese. Ma Adelina non ci sta ad essere schiava e pensa che denunciando uscirà dalla condizione di vittima “invisibile”; lei denuncia, portando all’arresto di oltre quaranta trafficanti di esseri umani e portando allo scoperto il modus operandi della mafia albanese che gestisce una gran parte del traffico di esseri umani e della prostituzione di strada in Italia. Uno sgarro imperdonabile che ha procurato in quel frangente ai clan albanesi danni economici per almeno sei miliardi di euro. Ma, pur essendo portata come un’icona della lotta alle mafie, alcuni mesi prima del suicidio Adelina si dà fuoco di fronte al Ministero dell’Interno come atto estremo di denuncia della condizione in cui si trovava, in un limbo legale da cui non riusciva ad uscire e che le impediva di vivere “legalmente” in Italia. Adelina poteva morire come le tante vittime di mafia, ma ha resistito per finire vittima dell’oblio dello stato. L’oblio, la legge e i suoi cavilli, il ricatto del permesso di soggiorno: altre forme di violenza…

Ho bisogno di gironzolare lungo il corteo a caccia di compagnx che conosco, altri slogan, altre canzoni, e mentre attraverso un fiume di decine di migliaia di contestatrix da un furgone escono parole che raccontano storie di violenza quotidiana, soprusi, bullismi a danno di lesbo e trans, ma anche la loro voglia di esserci di testimoniare e rivendicare, anche qui lustrini,  rossetti, abiti sono un arma per sottolineare,  per mettere ancor più in evidenza, per risaltare a modo nostro le storie di ragazze molestate e/o violentate nelle università, la maggior parte dal loro professore. E mi vengono in mente le sportive, le denunce di violenze di ogni tipo,  fisiche e psicologiche, in cui si insegna dominio e competizione, per non parlare della questione del merito. Amaramente sorrido e mi sento sempre più felice di essere qui in questo momento, e penso quanto è potente stare insieme. Sono sicura che altre storie, altri temi sono stati toccati, ma il corteo è finito: chi si mangia un panino, chi fa le ultime chiacchiere,  chi corre per prendere treno o pullman e chi si dà a canti e balli. Tuttx sempre più convintx che a chi ci vuole sempre più omologatx noi risponderemo lavorando in condivisione ed allegria per esserlo sempre di meno.

“Se non possiamo ballare, non è la nostra rivoluzione!” È solo un passo certo; ma per lottare ogni giorno c’è bisogno di darsi la carica tuttx insieme, di tornare a casa stancx ma con un entusiasmo rinnovato, del resto, come ho letto su un cartello, mancano 10 femminicidi a Natale. E non è certo con il silenzio che cambiano le cose.

L’incaricata

Related posts